Per Max Klinger cento anni dopo

di Rosita Tordi Castria

Non sorprende che nel 1920 Giorgio de Chirico, alla notizia della morte di Max Klinger, il grande incisore, scultore e pittore tedesco, al quale si era avvicinato negli anni del suo apprendistato a Monaco di Baviera tra il 1907 e il 1910, sia stato tra i primi a dedicargli un penetrantissimo saggio in cui lo definisce ‘artista moderno per eccellenza’.

Recita il movimento d’avvio:

Quando si guarda l’opera di Max Klinger, specie nelle sue acqueforti, si è subito colpiti dal modo bizzarro e fantastico con cui egli rappresenta il mito greco. Quello spirito che contengono le numerose composizioni che egli ha inciso sorprende per il fatto che prima d’averlo veduto non se ne sospettava l’esistenza nell’opera dell’arte greca, mentre dopo se ne trova in questa l’origine. Ciò dimostra la genialità dell’opera klingeriana che, per quanto altamente fantastica e ricca d’immagini le quali, a prima fronte, ed a persone poco scaltrite nelle sottigliezze metafisiche, possono sembrare paradossali ed insensate, si basa invece sempre sul fondamento d’una chiara realtà, potentemente sentita, e non erra mai in deliri e vaneggiamenti oscuri.

All’iniziatore della pittura ‘metafisica’, nato non impunemente all’ombra del Partenone, deve essere sembrata folgorante la singolare modalità del maestro di Lipsia nel coniugare la grecità classica e la modernità.

È probabile peraltro che fosse a conoscenza dell’enorme affresco del 1909, Fioritura della cultura greca, che decorava l’Aula Magna dell’Università di Lipsia fino ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, emblematico di una ‘narrativa’ orizzontale, lineare, classica, tutta in primo piano, in una scansione delle figure che è pura alternanza di forme e colori.

Indiscutibile la vicinanza al processo creativo del primo de Chirico il quale tuttavia nel suo saggio ferma l’attenzione pressoché esclusivamente sull’opera grafica di Klinger e in particolare sul ciclo di trentasette tra litografie e acqueforti, Opus XII, del 1894, dedicato a Johannes Brahms: 

Si guardi quell’acquaforte della serie Brahmsphantasie, che rappresenta il Trasporto di Prometeo. Nulla in quest’opera è nuvoloso e nebbiosamente fantastico. Sopra un pezzo di mare, coperto d’una larga rete di schiume, Prometeo, sorretto da Mercurio e dall’aquila di Giove, vien portato via di peso, come un ferito o un malato. Nel gruppo è palese tutto lo sforzo reale di quei tre esseri. Il movimento delle ali dell’aquila, costretta a volare contro vento e reggendo un forte peso, è espresso con straordinario acume d’osservazione. Così pure Mercurio che appare come un fantasma volante; per non lasciarsi rapire dal vento il pètaso ne ha pigliato tra i denti il sottogola e sorregge sotto le ginocchia Prometeo che s’aggrappa disperatamente all’aquila, mentre le foglie della corona d’alloro, donatagli dagli uomini in compenso del ratto del fuoco divino, cadono a una a una.

Il ‘pictor optimus’ non tiene in alcun conto che nelle incisioni confluite in Opus XII, un ruolo rilevante, accanto alla musica, spetti alla poesia, in particolare quando il testo prescelto è di un poeta della statura di Friedrich Hölderlin.

Confessa Brahms che nel corso di un breve soggiorno a Brema nel 1885 in casa dell’amico Albert Dietrich, capitatogli tra le mani un volume di poesie di Hölderlin. la sua attenzione è stata fulmineamente attratta dal Canto del destino di Iperione, da cui l’idea, divenuta in seguito ossessiva, di metterlo in musica.

Una gestazione lunga e complessa che si è distesa nell’arco di tre anni.

È del 1888 la pubblicazione dello spartito musicale accompagnato dal testo poetico:

Passeggiate lassù nella luce

Su suolo soffice, geni beati!

Arie splendenti dei

Vi toccano leggermente,

Come le dita dell’artista

Delle corde sante.

Senza destino, come il lattante

Dormiente, respirano coloro del cielo;

Tenuti castamente

In un boccio modesto.

Gli fiorisce in esterno

L’anima,

E gli occhi beati

Guardano in tranquilla

Chiarezza eterna.

Ma è dato a noi

Di riposare su nessuna dimora,

Svanisce, cade

La gente sofferente

Alla cieca

Ora dopo ora,

Come acqua gettata da scoglio a scoglio,

Per anni giù nell’incerto.

È dall’ascolto di questo Lied che nasce la tavola XXII dell’Opus XII, Brahmsphantasie: una traduzione grafica piuttosto libera in cui Klinger inserisce la figura di Omero a sigillo di un destino che, al di là dell’arte, non concede agli umani alcuna stabile dimora:

Svanisce, cade

la gente sofferente

alla cieca

ora dopo ora.

Come acqua gettata

da scoglio a scoglio,

per anni giù nell’incerto.   

Non v’è dubbio che in questa linea di pensiero si verifichi una singolare sintonia tra il poeta, il compositore e l’incisore, a conferma peraltro dell’obiettivo, tenacemente perseguito da quest’ultimo, di una sintesi delle diverse arti.

Emblematica in questa direzione la stessa cerimonia di inaugurazione della XIV esposizione della Secessione viennese nel 1902 in omaggio a Beethoven: al centro della sala la imponente scultura multimaterica (marmo, bronzo, avorio, pasta vitrea antica), eseguita per l’occasione da Klinger, raffigurante il grande compositore tedesco seduto in una sorta di trono, con indosso un mantello rosso a coprire gli arti inferiori del corpo nudo.

Quando Klinger entra nella sala, nella cui cornice corre il fregio di Beethoven dipinto da Gustav Klimt, il coro diretto da Gustav Mahler intona l’Inno alla gioia.

La messa in dialogo tra i diversi linguaggi artistici non potrebbe avere rappresentazione più adeguata.

E tuttavia nel processo creativo di Klingher è palese la tensione verso una sintesi che oltrepassi gli steccati disciplinari per estendersi alle diverse culture, classiche e moderne, laiche e religiose.

Emblematico in direzione di una fusione tra mito pagano e cristiano è il dipinto di grandi dimensioni, Cristo nell’Olimpo, ultimato a Lipsia nel 1897 ma ideato durante il soggiorno in Italia, a Roma, tra il 1888 e il 1893.

Dallo studio romano in via Claudia Klinger scrive ai genitori il 27 febbraio 1888:

Lo studio è piuttosto ampio, con un grande balcone per dipingere all’aperto: E’ al sesto piano e tutt’intorno ho una visione incredibilmente bella e aperta. Su tutti i monumenti, l’intera Roma in cerchio fino ai monti lontani. Proprio davanti all’atelier giacciono le gigantesche rovine del Colosseo, e poco più in là, l’Arco trionfale di Costantino (…). Ve li dipingerò prima o poi. Ma non è una veduta, è un panorama, perché splendidi luoghi si stendono tutt’intorno.

Molti i viaggi e le escursioni verso il Sud in quegli anni romani: nell’aprile 1889 è a Paestum, quindi a Pompei, né si fa mancare una ascensione notturna del Vesuvio nei giorni appena successivi a una fase eruttiva.

Recita la sua lettera del 21 aprile ai genitori:

Che splendore il golfo fino a qui! Tutto sole e luce (…). Come terra e come arte questo pezzo di Sud è tutt’altra cosa dall’Italia settentrionale: ne ho ricevuto una grande spinta e impressioni durature.

Soggiogato dalla solarità mediterranea, che sarà di fatto un tratto peculiare della sua produzione pittorica, Klinger visiterà la Sicilia e successivamente la Grecia.

A rendere esaltante il suo diretto contatto con l’arte greca classica contribuisce senza dubbio l’ascendente del pensiero di Nietzsche, la sua concezione della grecità come della più alta espressione della civiltà umana.

All’autore di Nascita della tragedia dallo spirito della musica Klinger si era avvicinato, assai probabilmente per la mediazione di Wagner al quale l’opera è dedicata, fino dalla sua prima formazione a Lipsia e aveva totalmente condiviso la sua idea dell’eterno ritorno dell’identico secondo una nozione circolare del tempo.

Sono in particolare gli straordinari dipinti del decennio 1887-1897 a mostrarne chiarissimi segni e senza dubbio sorprende che in un primo momento siano stati giudicati molto severamente: nel dipinto Il giudizio di Paride, ultimato nel 1887, sconcertava la messinscena in chiave sfrontatamente moderna della contesa tra Giunone, Minerva e Venere; in La Crocifissione, del 1890, a suscitare scandalo era la nudità del corpo di Cristo e infine in Cristo nell’Olimpo creava disagio la ostentata promiscuità di sacro e profano.

Di fatto nei tre dipinti in questione si palesa, attraverso una teatralizzazione di folgorante luminosità, la angosciante consapevolezza di Klinger dell’invalicabile ‘nulla’ che connota l’umano esistere: chiusa ogni via di fuga nel trascendente, la sola possibilità di ‘liberazione’ è offerta unicamente dall’arte e in primo luogo dalla più astratta delle arti, la musica.

In questa direzione non tralascia occasione per celebrare i grandi compositori tedeschi, da Beethoven a Wagner a Strauss, all’amatissimo Brahms con il quale ultimo ha un rapporto amicale segnato da manifestazioni di reciproca, profondissima, stima.

Recita una lettera di Brahms a Klinger del 29 dicembre 1893:

Vedo la musica, vedo le belle parole (…) e senza che me ne accorga i suoi splendidi disegni mi portano più lontano; guardandoli, è come se la musica continuasse a risuonare all’infinito e esprimesse tutto ciò che avrei voluto dire, più chiaro di quanto non possa la musica, e tuttavia altrettanto ricco di mistero e di presentimenti. Talvolta mi vien fatto di invidiarLa perché il Suo stile può essere più eloquente, talvolta di rallegrarmi perché non ho bisogno di esserlo; ma in fondo sono convinto che tutte le arti sono simili e parlano la stessa lingua.

Il compositore ha appena ricevuto un esemplare del ciclo Opus XII e non esita a lasciar trasparire la sua emozione nel ringraziare l’amico al quale nel 1896 dedicherà Vier ernste Gesănge, op.121, il suo testamento artistico: quattro Lieder tratti dalla Bibbia, dei quali i primi tre dall’ Ecclesiaste e il quarto dalla Epistola ai Corinti, pubblicati nelle edizioni Simrock di Berlino e in quello stesso anno eseguiti nel Bösendorfer – Saal di Vienna.

Recitano i primi tre Lieder:

Perché un’unica sorte hanno uomo e animale,

come questo muore, così muore anche quello;

e tutti hanno un unico respiro;

e nulla ha l’uomo più dell’animale:

perché tutto è vanità.

Tutto va verso un unico luogo;

tutto è polvere

e alla polvere ritornerà.

Chi può dire se lo spirito dell’uomo sale in alto

E il respiro dell’animale

Scende giù sotto terra?

E allora ho considerato: il meglio

È che l’uomo stia lieto col proprio lavoro,

perché questa è la sua competenza.

Chi infatti mai potrà

Mostrargli ciò che sarà dopo di lui?

Mi volsi e considerai tutti coloro

che sotto il sole soffrono ingiustizia;

ecco, le lacrime vidi di quanti

soffrirono ingiustizia e non ebbero consolatore,

quelli che a loro fecero ingiustizia erano troppo

potenti

per avere chi li consolasse.

Allora lodai i morti, già scomparsi,

più dei vivi che ancora erano in vita;

e chi non è ancora, è più felice di entrambi,

ignora il male

che accade sotto il sole.

O morte, morte, come sei amara

quando a te pensa un uomo

che ha giorni lieti e quanto basta per sé, e senza

affanni ha vissuto;

che ha fortuna in tutte le cose

e ancora può godere le gioie della mensa!

O morte, morte, come sei amara.

O morte, come sei benigna al misero,

che è debole e vecchio,

che in cento affanni si dibatte

e non ha più nulla da sperare

né da aspettare.

O morte, morte, come sei benigna.

La vanità di ogni cosa terrena domina i primi due canti e se nel terzo l’atmosfera sembra accenni a schiarirsi alla fine è la morte a profilarsi come unica possibilità di liberazione dall’angoscia esistenziale. 

Diverso il registro del quarto Lied in cui la notevole ricchezza melodico / armonica esalta la forza dell’amore:

Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli

e non avessi carità,

sarei solo un bronzo risonante o una campana che squilla.

E se potessi predire il futuro

e conoscessi tutti i misteri e tutte le saggezze

e avessi tutte le fedi,

così da smuovere le montagne

e non avessi la carità,

non sarei nulla.

E se donassi ai poveri tutti i miei averi

e facessi bruciare il mio corpo

e non avessi carità,

non servirebbe a nulla.

Noi ora vediamo attraverso uno specchio

oscuramente, 

ma poi vedremo faccia a faccia.

Ora conosco solo dei frammenti,

ma poi conoscerò l’intero,

proprio come io sono conosciuto.

Ora restano queste tre cose, fede, speranza e carità:

ma tra loro la carità è la più grande.

L’anno successivo Brahms muore e Klinger decide di eseguire in suo omaggio una imponente scultura in bianchissimo marmo che troneggia tuttora nel Foyer del Musikhalle della città di Amburgo dove era nato nel 1833.

Max Klinger in Italia

Nel quinquennio 1886 – 1893 che coincide con i soggiorni romani di Klinger (in via Claudia 9 e in Piazza Mattei) è collocabile l’ideazione di dipinti il cui tratto dominante è una singolare messa in dialogo di epoche, religioni e civiltà diverse: Cristo in Olimpo, completato a Lipsia nel 1897, L’ora bleu, Pietà, La nuova Salomé, il ciclo di incisioni Un amore. Opus X.

Del 1891, anno in cui esegue il dipinto Ritratto di donna su un tetto di Roma, la pubblicazione del saggio Pittura e disegno, nel quale al centro della riflessione è di fatto la relazione del disegno con le altre arti.